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La Chirurgia Vascolare si occupa del trattamento delle patologie delle arterie e delle vene. Considerando dapprima il versante arterioso, come è noto, le patologie cardiovascolari sono fra le malattie più frequenti: il chirurgo vascolare si occupa del loro trattamento chirurgico dalla base del collo alla punta del piede escludendo il cuore (che è di competenza del cardiochirurgo). La malattia aterosclerotica coinvolge le arterie carotidi causando un restringimento dell’arteria che può essere il primo passo verso lo sviluppo di un ictus cerebrale; come nelle carotidi, la malattia aterosclerotica può causare restringimento di tutte le arterie dell’organismo, le arterie viscerali, renali, ma anche e soprattutto le arterie degli arti inferiori partendo dall’asse iliaco fino alle femorali, poplitee e tibiali. Quest’ultima patologia è nota come arteriopatia periferica e il chirurgo vascolare si occupa di questa patologia dalla visita clinica, all’approfondimento diagnostico all’approccio terapeutico. La patologia aterosclerotica, invece, sulle arterie più grandi non causa spesso un restringimento, quanto una dilatazione, il cosiddetto aneurisma che richiede anch’esso un trattamento correttivo per prevenirne la rottura.
Sul versante venoso, invece, il chirurgo vascolare si occupa del trattamento della malattia venosa cronica degli arti inferiori che colpisce il sistema venoso superficiale, ma anche del sistema venoso profondo prima e dopo gli episodi di trombosi venosa profonda.
ANEURISMA DELL’AORTA ADDOMINALE
Intervista al prof. Piergiorgio Settembrini:
https://www.simedica.tv/video/aneurisma-addominale-prof-piergiorgio-settembrini/
Cos’è un aneurisma?
Quando si parla di aneurisma si intende la dilatazione permanente di un vaso, comprendente tutti gli strati della parete, con un aumento del diametro superiore del 50% di quello fisiologico.
Gli aneurismi interessano principalmente l’aorta: l’aorta toracica può dilatarsi da sola o in associazione alla porzione addominale formando un aneurisma toraco-addominale. Ma il tratto aortico che più sovente va incontro a dilatazione è quello addominale. Per l’aorta addominale esistono diverse definizioni, ma attualmente la più accettata definisce aneurisma “una dilatazione del diametro maggiore di almeno 3 cm ovvero un aumento del diametro di oltre 1,5 volte rispetto all’aorta normale a monte in quell’individuo”.
Gli aneurismi che interessano questa porzione vengono definiti sulla base del loro rapporto con le arterie renali. Un aneurisma dell’aorta addominale si definisce soprarenale quando la dilatazione coinvolge anche l’origine delle arterie renali, iuxtarenale quando la dilatazione arriva a livello degli osti delle arterie renali senza coinvolgerli ed infine sottorenale quando la dilatazione inizia qualche centimetro a valle degli osti renali.
Macroscopicamente, la maggior parte degli aneurismi dell’aorta sottorenale sono dilatazioni fusiformi che iniziano a valle delle arterie renali e si estendono fino alla biforcazione aortica o coinvolgono anche le arterie iliache comuni ed ipogastriche.
Perché si forma un aneurisma?
Le cause che provocano la formazione degli aneurismi dell’aorta addominale sono molteplici.
L’architettura e il calibro dell’aorta normale variano lungo il decorso del vaso: il calibro si riduce progressivamente dall’origine dopo la valvola aortica fino alla biforcazione. Questo affusolamento progressivo, associato alle onde di pressione, riflesse dall’albero arterioso periferico, causa un aumento della pressione murale dell’aorta sottorenale.
In questo punto, oltretutto, è presente una particolare turbolenza dovuta ai flussi che il sangue assume per la deviazione nelle arterie renali, le quali, come è noto, ricevono il 20% della gittata cardiaca.
Una volta che la dilatazione ha inizio, indipendentemente dal fattore causale, la tensione murale nell’aneurisma cresce drammaticamente, favorendo un progressivo aumento del processo dilatativo. Quindi all’aumentare del raggio aumenta sempre di più la tensione della parete, che causerà nuova dilatazione e così fino a raggiungere diametri molto pericolosi per il rischio di rottura.
Perciò l’instaurazione del meccanismo dilatativo è una condizione che non può regredire e anzi progredisce inesorabilmente verso la rottura ad una velocità non prevedibile.
Quali sono i fattori di rischio?
Non esistono dei fattori di rischio specificamente correlati allo sviluppo dell’aneurisma, ma sono state notate delle correlazioni più o meno significative.
Innanzitutto le dimensioni dell’aneurisma e l’ipertensione arteriosa risultano molto importanti nell’evoluzione verso la rottura.
L’aneurisma dell’aorta addominale è un processo patologico definito come una patologia degenerativa o di eziologia non specifica (90%).
La parete aortica normale è composta soprattutto da due strutture lamellari, elastina e collagene, che hanno la funzione di rendere elastica e resistente l’aorta sotto gli impulsi dell’onda sfigmica ad ogni battito cardiaco. La componente di elastina, all’interno della tonaca media, è differente fra la porzione toracica (dalle 60 alle 80 lamelle) e la porzione addominale (dalle 28 alle 32) e il collagene (I e III tipo), in proporzione opposta, è più rappresentato a livello addominale rispetto che nel torace.
Un altro punto nodale nello sviluppo degli aneurismi dell’aorta è la presenza dell’infiammazione che può essere causato da processi infettivi (Chlamydia Pneumoniae) oppure dalla medionecrosi cistica dell’aorta, le arteriti e sicuramente il fumo di sigaretta.
Esistono però anche delle condizioni particolari:
E’ molto frequente?
In Italia il primo studio epidemiologico sulla popolazione generale è stato condotto nel 1992 dal gruppo di P.Settembrini e collaboratori che ha effettuato uno screening della popolazione ultrasessantenne del comune di Asola, in provincia di Mantova, mediante ecografia addominale. In accordo con i risultati della letteratura, è stata evidenziata un’incidenza del 3,57%. Dagli ultimi dati ISTAT risulta che attualmente la popolazione con età maggiore a 65 anni sia di circa 10.000.000 di persone. Ciò sta a significare che in Italia vi sono oltre 300.000 persone potenzialmente affette da aneurisma dell’aorta addominale. Negli uomini il rischio aumenta dopo i 50 anni ed ha il suo picco massimo nella decade 70-80 anni; nelle donne la curva dell’incidenza appare simile, ma è traslata in avanti nel tempo di circa 10-15 anni.
E’ pericoloso?
Il destino inevitabile di tutti gli aneurismi è la crescita progressiva fino alla rottura, ma non siamo in grado di predire quando essa avverrà. Per quanto riguarda i rischi di rottura di un aneurisma, un lavoro fondamentale (Lederle e coll.) ha analizzato in maniera prospettica pazienti dal 1995 al 2000 divisi in 3 gruppi in base al diametro dell’aneurisma (5.5-5.9; 6.0-6.9; 7.0 e maggiore). I pazienti con probabile rottura presentavano un aumento delle dimensioni dell’aneurisma di 0.75 cm per anno rispetto allo 0.43 cm per anno della crescita mediana dei pazienti arruolati. E’ stata registrata un’importante differenza negli indici di rottura tra gli AAA di 6.5-6.9 cm e quelli di 8 cm e oltre: nel primo caso la rottura a 6, 12 e 18 mesi risultava 10.3%, 19.1% e 19.1%; mentre nel secondo risultava 25.7% a 6 mesi, 36.4% a 12, 39.5 a 18 e 54.7% a 24 mesi. Questa differenza conferma ciò che Lederle vuole trasmettere: il rischio di rottura diventa significativo dai 5.5 cm in poi, e che oltre tale misura, all’aumentare del diametro il rischio aumenta in modo quasi esponenziale.
L’unica soluzione per evitare il drammatico avvenimento della rottura è l’intervento chirurgico in elezione, cioè un intervento programmato su un paziente emodinamicamente stabile e senza comorbidità gravi da scompensare l’equilibrio del suo organismo.
Classicamente l’indicazione chirurgica viene posta quando l’aneurisma raggiunge il diametro di 5 cm. Vi sono poi una serie di condizioni che permettono l’esecuzione dell’intervento prima del raggiungimento dei “fatidici” 5 cm: l’incremento del diametro di oltre 0.5 cm in sei mesi, la presenza di alterazioni di parete (bleb, blister, rotture tamponate) che indichino un locus minoris resistentiae, la presenza di complicanze legate all’aneurisma (embolizzazione), la scarsa possibilità per il paziente di poter essere sottoposto ad un intervento in urgenza (per condizioni logistiche avverse) ed infine condizioni cliniche in peggioramento che comportino un significativo aumento del rischio dell’intervento qualora esso venisse posposto.
Quali sono i sintomi?
Per la sua paucisintomaticità, il quadro clinico correlato alla presenza di un aneurisma dell’aorta addominale costituisce una sfida per i medici che si trovano ad affrontarlo. Infatti, la malattia spesso non dà alcun segno di sé fino a quando l’aneurisma non raggiunga dimensioni notevoli e l’ingombro determinato dalla massa eserciti compressioni sugli organi viciniori, oppure, evenienza ancor più drammatica, qualora l’aneurisma non vada incontro a rottura, portando il paziente verso un improvviso stato di shock.
Fino ad allora l’aneurisma può dare qualche lieve sintomo, come un’algia alla colonna vertebrale o sensazione di pesantezza correlata o meno con i pasti; più spesso può essere riferito dal paziente come la presenza di una pulsazione “strana” nell’addome.
Come può essere diagnosticato?
Molto spesso è sufficiente una valutazione clinica ambulatoriale anche del proprio Medico di Medicina Generale che con una palpazione dell’addome può rendersi conto se è presente una pulsatilità “abnorme”, ad eccezione dei pazienti sovrappeso o obesi. Infatti all’esame obiettivo l’unico reperto che può essere apprezzato alla palpazione dell’addome è la presenza di una massa abnorme, pulsante. La caratteristica di questa massa è l’espansione in tutte le direzioni contemporaneamente. Talvolta il medico commette un errore di valutazione, all’esame clinico, scambiando come aneurisma la presenza di un’aorta particolarmente prominente (nelle donne) o con una marcata pulsatilità, negli ipertesi.
E’ qui che si inserisce l’importanza della diagnostica strumentale con ultrasuoni per il suo minore costo ed invasività (non essendo fonte di radiazioni). Questa tecnica diagnostica fornisce dati su tutta la struttura della parete aortica e sulla sua conformazione, permettendo la visualizzazione chiara di elementi patologici come le placche aterosclerotiche o le dimensioni dei trombi murali.
Il limite di questo esame, però, è il difficile studio del tratto soprarenale e soprattutto l’interferenza nell’osservazione causata dal meteorismo o dall’obesità del paziente.
Quando le dimensioni dell’aorta fossero a ridosso dei 5 cm è indicato che il medico che ha eseguito un’ecografia dell’addome o un ecocolordoppler invii il paziente da un chirurgo vascolare oppure direttamente all’esecuzione di un’angioTC.
Per tale ragione la TC non viene ritenuta esame di prima scelta per lo screening o il follow-up di una dilatazione nota, mentre viene quasi sempre eseguita prima di programmare un intervento chirurgico sia esso chirurgico open o endovascolare.
Essa consente una completa valutazione del lume aortico, la localizzazione e l’estensione del trombo e la presenza di eventuali dissecazioni. Inoltre permette l’analisi dei rapporti dell’aorta con i vasi renali, mesenterici o la presenza di aneurismi delle arterie iliache.
Ricostruzione TC di un Aneurisma dell’Aorta Addominale Sottorenale
Quale trattamento si può attuare?
Il provvedimento chirurgico di sostituire l’aorta lesionata con una protesi è l’unico in grado di prevenire la rottura dell’aneurisma, non essendo disponibili farmaci in grado di rallentare la crescita o rinforzare la parete sfiancata. (Jorg Vollmar, 1975)
Oggi questa frase è vera parzialmente: non esistono tuttora farmaci in grado di prevenire e fermare l’evoluzione, ma è possibile trattare l’aneurisma anche senza sostituire l’aorta aneurismatica.
https://www.sicve.it/consensi-e-linee-guida/
https://www.esvs.org/journal/guidelines/
Questo tipo di intervento è considerato tutt’ora definitivo perché l’aneurisma viene completamente rimosso e il tratto malato, sostituito con una protesi biocompatibile che ha una durata molto lunga. Per questa ragione è l’opzione scelta nei pazienti più giovani o comunque in buone condizioni generali di salute.
L’approccio chirurgico al paziente può avvenire fondamentalmente attraverso due vie di accesso: laparatomia mediana xifo-(sopra-sotto)-ombelicale la laparatomia trasversale (sottocostale bilaterale o secondo Chevron se estesa poi verticalmente verso l’apofisi ensiforme).
Terminata l’apertura dell’addome si provvede all’isolamento della massa aneurismatica.
Successivamente si procede al clampaggio dell’aorta addominale e delle arterie iliache comuni; all’apertura della sacca aneurismatica con eventuale asportazione di materiale trombotico e alla chiusura, mediante punti trasfissi delle arterie lombari.
Aneurisma dell’aorta addominale come appare al termine del suo isolamento e sua apertura prima della messa a piatto
L’inserimento della protesi avviene con un’anastomosi termino-terminale sull’aorta a monte, mentre a valle l’anastomosi può avvenire sull’aorta pre-carrefour (con protesi tubolare retta), sulle arterie iliache comuni, sulle arterie iliache esterne o direttamente sulle arterie femorali. In quest’ultimo caso viene richiesta anche l’incisione degli inguini con aumento del rischio di infezione, una delle complicanze più temibili di questo intervento.
Messa a piatto di un aneurisma e sostituzione con protesi aorto-bisiliaca comuni
Esistono complicanze?
L’organo maggiormente responsabile di questi eventi è il cuore, che per primo risente della pesantezza dell’intervento e può andare incontro a processi ischemici prevalentemente nelle prime due giornate postoperatorie.
Gli altri organi che sono colpiti da processi ischemici sono il rene e l’intestino, mentre un organo che spesso può dare complicanze, benchè indipendenti dall’ischemia, è il polmone: l’allettamento, il dolore postoperatorio e la mancata collaborazione del paziente possono portare allo sviluppo di polmoniti.
Altre due complicanze che, se pur meno frequenti, sono comunque presenti: la paraplegia e la disfunzione sessuale.
La prima può essere dovuta ad occlusione o ad embolia di collaterali dell’arteria ipogastrica o per un’origine abnorme (molto bassa) dell’arteria di Adamkiewicz che comporta un’ischemia midollare e conseguente paraplegia. L’arteria ipogastrica è una struttura da tentare di preservare anche per scongiurare l’impotentia erigendi del paziente.
L’impotenza è dovuta alle lesioni delle strutture nervose preaortiche e/o del grande nervo ipogastrico, che scende nello scavo pelvico a sinistra dell’aorta, ovvero per occlusione o embolia delle arterie ipogastriche.
La complicanza più grave, riguardo alla protesi, è la sua infezione, che è molto rara se non si è resa necessaria l’anastomosi a livello femorale.
Quali controlli devo fare?
Dopo questo intervento è necessario seguire i consigli del centro in cui si è stati operati, ma noi consigliamo di solito un ecocolordoppler dell’aorta addominale ad 1, 6, 12 mesi e successivamente ogni 12 mesi.
Questo approccio per il trattamento degli aneurismi dell’aorta addominale venne presentato da Juan Carlos Parodi nei primi anni ’90, benchè la prima esclusione di un aneurisma con questa tecnica fosse stata eseguita da Volodos in Russia sul finire degli anni’80.
https://www.youtube.com/watch?v=SLgzRgTNwe4
Il trattamento endovascolare prevede l’accesso della protesi in aorta in genere attraverso l’arteria femorale comune, bilateralmente, spesso in anestesia locale e sedazione eseguita dall’anestesista.
Le protesi che possono essere posizionate sono classificate, dal punto di vista morfologico in: 1) rette o biforcate, come per il trattamento tradizionale, 2) aorto-uniliaca con occlusione di un’asse iliaco ed esecuzione di un cross-over femoro-femorale in caso di processi patologici (occlusione o calcificazione notevole) di una delle due arterie iliache.
Le maglie metalliche che compongono queste protesi sono strutturate o ad anelli separati, che permettono una maggiore flessibilità, o ad elica e sono composte per lo più in nitinolo (una lega di nichel e titanio).
L’intervento endovascolare prevede l’avanzamento della protesi attraverso l’accesso femorale, fino alle arterie iliache e da qui all’aorta. A livello aortico la protesi viene aperta al di sotto delle arterie renali oppure al di sopra delle stesse, in caso di aneurismi soprarenali, grazie ad endoprotesi cosiddette fenestrate, che presentano delle vere e proprie aperture in corrispondenza degli osti renali, mesenterica superiore o tripode del paziente (vengono appositamente prodotte per ciascun paziente dalla casa produttrice) impedendo lo sviluppo di ischemia nei diversi circoli.
A destra, posizionamento di un’endoprotesi sotto guida fluoroscopica; a sinistra angioTC di controllo dopo posizionamento di endoprotesi aorto bisliaca
Progetto per un’endoprotesi fenestrata
Esistono complicanze?
Nella chirurgia endovascolare le complicanze possono avvenire nel perioperatorio (intraprocedurali e post procedurali) o tardivamente a distanza di anni dal posizionamento dell’endoprotesi.
Quelle che si sviluppano durante la procedura sono principalmente le lesioni delle vie di accesso o l’embolizzazione dalla sacca aneurismatica.
Ci sono due complicanze perioperatorie non intraprocedurali: la sindrome post- impianto e le complicanze inguinali della ferita. La prima è caratterizzata da febbre di origine sconosciuta, senza leucocitosi o segni di infezione, depressione sistemica e lombalgia che migliora con il trascorrere dei giorni.
Le complicanze inguinali in sede di accesso comprendono gli ematomi per soffusione emorragica, gli pseudoaneurismi, linforrea, linfedema o linfocele, mentre, come in tutti gli accessi femorali si può rischiare di osservare un’infezione di ferita.
Le complicanze tardive invece sono: endoleak, dilatazione del colletto e della sacca aneurismatica, migrazione della protesi, trombosi delle branche protesiche ed infezione dell’endoprotesi.
L’endoleak è definito come la persistenza, dopo il posizionamento dell’endoprotesi, di flusso di sangue fuori dal lume dell’endoprotesi. E’ indice di una non completa esclusione della sacca aneurismatica. Fra i più frequenti quelli definiti di tipo 1 in cui sussiste una mancata adesione tra endoprotesi e parete aortica o a livello delle arterie iliache causando, quindi, un continuo afflusso di sangue ad alta pressione all’interno della sacca aneurismatica aumentando il rischio di rottura e di tipo 2 quando il flusso nelle arterie lombari inverte la sua direzione che da centrifuga diventa centripeta per cui il sangue tende a spingersi all’interno della sacca aneurismatica. Solitamente quest’ultima tipologia sono benigni e monitorati nel tempo causando difficilmente un aumento delle dimensioni dell’aneurisma e la sua rottura.
Quali controlli devo fare?
Dopo questo intervento è necessario seguire i consigli del centro in cui si è stati operati. Le linee guida internazionali consigliano almeno un’angioTC all’anno. La nostra esperienza ci ha portato a pensare, salvo casi particolari, di dilatazioni molto grosse o interventi molto complicati, che l’ecocolordoppler dell’aorta addominale con mezzo di contrasto possa essere sicuramente un’alternativa molto valida all’angioTC. Pertanto consigliamo ecocolordoppler con mezzo di contrasto a 3 e 6 mesi, poi se non si dovessero evidenziare endoleaks, + sufficiente un ecocolordoppler dell’aorta addominale ogni 12 mesi.
ARTERIOPATIA OBLITERANTE CRONICA PERIFERICA
Intervista al dott. Alberto Settembrini:
https://simedica.tv/video-e-interviste/161/arteriopatia_arti_inferiori_dr_alberto_settembrini_cardiovascolare
Articolo di divulgazione scientifica:
https://medicioggi.it/contributi-scientifici/la-malattia-delle-vetrine-update-dalla-letteratura-scientifica-sulla-gestione-dellarteriopatia-degli-arti-inferiori/
Cos’è l’arteriopatia cronica periferica?
L’arteriopatia obliterante cronica periferica è una condizione patologica in cui l’aterosclerosi colpisce le arterie degli arti inferiori o superiori (molto più raramente e in condizioni di comorbidità specifiche).
Il processo aterosclerotico degli arti inferiori causa la malattia delle arterie degli arti inferiori con conseguente ridotto apporto di sangue e di ossigeno alle estremità. Questo si manifesta con dolore alle gambe dapprima durante l’attività fisica e lo sforzo, quando i muscoli richiedono più ossigeno e successivamente, con l’aggravarsi, anche a riposo, quando cioè non viene richiesto più ossigeno fino allo sviluppo di lesioni cutanee e ulcerazioni.
Il destino di tale malattia prevede una inesorabile e progressiva ischemia dell’arto ammalato che porterebbe a morte i tessuti e quindi l’intero arto, con fenomeni di gangrena ed infezioni gravi con rischio per la sopravvivenza dell’arto stesso.
L’arteriopatia periferica segue due classificazioni di cui una è l’evoluzione dell’altra: la classificazione di Leriche-Fontaine e la classificazione di Rutherford.
La prima, la classificazione di Leriche-Fontaine, suddivide la patologia in 5 gradi:
Nel 1997 Rutherford presentò una nuova classificazione con 6 gradi:
Quali sono i fattori di rischio?
Come si può diagnosticare questo problema?
Quale terapia?
1) Medica
Quando invece un paziente giunge in ambulatorio per sospetta arteriopatia o con un quadro di claudicatio intermittens sia a lunga, sia a breve distanza, deve essere inizialmente sottoposto a esame obiettivo con la valutazione della pulsatilità dei polsi femorali, poplitei e tibiali e all’esecuzione dell’Ankle Brachial Index (ABI – Indice caviglia braccio) o Indice di Winsor, che può discriminare la presenza o meno di un’arteriopatia e il grado della stessa.
In questo caso l’approccio terapeutico, soprattutto in caso di asintomaticità, deve essere conservativo; con il controllo dei fattori di rischio (i.e. fumo di sigaretta, dislipidemia, iperomocisteinemia, ipertensione arteriosa e diabete), con l’esercizio fisico (meglio se monitorato dalla professionisti adeguatamente formati) ed con l’eventuale prescrizione di una terapia farmacologica specifica.
l trattamento medico dovrebbe essere intrapreso solo in caso di iniziale sintomatologia riferita dal paziente e consta di singola terapia antiaggregante associata alla statina per permettere un miglioramento dell’intervallo di marcia. Nei pazienti che assumono già una terapia anticoagulante, il trattamento antiaggregante, solitamente, non viene prescritto.7
A proposito della terapia antiaggregante: le linee guida hanno sancito la superiorità del clopidogrel nei confronti della cardioaspirina, ma tuttora nella pratica clinica, il farmaco iniziale è la cardioaspirina, perché più maneggevole nella sua gestione ed eventuale sospensione in previsione di interventi chirurgici.
In aggiunta a queste terapie viene spesso utilizzata, sin dall’inizio della cura, anche la terapia vasoattiva. Sono diversi i farmaci che, secondo le linee guida, hanno una sufficiente evidenza scientifica come: cilostazolo, naftidrofurile e L-propionil carnitina. Fra questi, quello che attualmente sembra aver dimostrato una maggiore evidenza di efficacia è il cilostazolo, inibitore della Fosfodiesterasi-3 nel sistema cardiovascolare. Questo farmaco ha proprietà vasodilatatorie perché determina un rilassamento della muscolatura vascolare liscia e inibisce la mitogenesi e la migrazione delle cellule muscolari lisce; contemporaneamente riduce l’aggregazione piastrinica.
L’utilizzo di questo farmaco è principalmente indicato nei pazienti claudicanti, con un aumento dell’intervallo di marcia libero da dolore del 25% dopo 12 settimane di trattamento, così come il miglioramento dell’Indice caviglia-braccio.6
Qualora la terapia medica, che deve essere adottata in prima istanza, non dovesse funzionare, l’unica possibilità di cura è dato da un intervento chirurgico di creazione di una nuova via (By-pass) arteriosa artificiale che superi l’ostacolo al normale flusso sanguigno, permettendo così di “rivascolarizzare” l’arto. Il materiale con cui viene approntato il By-pass di solito è composto dalle stesse vene superficiali dell’arto inferiore ammalato, o protesi sintetiche.
Gli interventi possono essere diversi a seconda del tratto di arteria o di arterie che sono interessate dalla steno-occlusione. In particolare si possono eseguire interventi di ridotta invasività come la tromboendoarteriectomia della biforcazione femorale o la plastica dell’arteria femorale profonda oppure interventi più invasivi con un bypass che origina dall’arteria femorale e che atterra nella zona di arteria “sana”oltre la stenosi o l’occlusione. Questo punto di atterraggio può trovarsi sull’arteria poplitea sopra il ginocchio o appena sotto il ginocchio oppure sulle arterie tibiali o interossea.
A seconda della complessità e della durata, l’intervento può essere eseguito in anestesia generale o spinale.
Le complicanze che possono accadere durante e dopo l’intervento possono essere: emorragie, attacchi cardiaci, ictus apoplettico, danni a vari organi (reni, polmoni, cuore,), trombosi del by-pass, TVP, lesione di nervi motori con deficit alla deambulazione.
La mortalità per questo intervento dipende dalle condizioni del sistema cardio-circolatorio (per eventuali ostruzioni arteriose aterosclerotiche concomitanti in altre sedi), dalle condizioni dell’apparato respiratorio, urinario e dalle condizioni neurologiche e generali, anche se normalmente è piuttosto bassa.
La circolazione nelle gambe può non riprendere in modo sufficiente ed esiste il rischio, in caso di insuccesso della procedura, di dover amputare in un secondo momento l’arto ammalato. Un’infezione della protesi impiantata può verificarsi in una percentuale di casi inferiore al 5%: questa evenienza è molto grave e aumenta considerevolmente il rischio di amputazione della gamba. Localmente possono verificarsi danni ai nervi cutanei determinando parestesie (alterata sensibilità). Tali complicanze possono essere reversibili o permanenti.
STENOSI CAROTIDEA
Intervista al dott. Alberto Settembrini
https://medicina365.it/2020/11/16/dott-alberto-settembrini-prevenzione-dellictus/
Cos’è la stenosi carotidea?
La stenosi carotidea è una condizione patologica, determinata dal progressivo deposito di materiale colesterinico responsabile dello sviluppo dell’aterosclerosi, che causa una riduzione del flusso di sangue lungo l’arteria carotide e di conseguenza in tutto l’albero vascolare del cervello irrorato da questa arteria. Il rischio è che l’arteria carotide si occluda e che si sviluppi un evento drammatico come l’ictus ischemico.
Ricordiamo che la malattia cerebro-vascolare è la 3ª causa di morte nel mondo occidentale, la 2° causa di morte cardiovascolare e la 1ª causa di invalidità permanente. E’ bene notare che oltre alla morte si deve considerare l’invalidità del paziente, che ha pesanti conseguenze sociali ed economiche sul paziente stesso, la sua famiglia e la società.
E’ sempre pericolosa?
La stenosi carotidea è una malattia progressiva perchè lo sviluppo della placca aterosclerotica necessita di tempo per causare un restringimento significativo dell’arteria aumentando, quindi, i rischi di essere responsabile di un ictus ischemico.
Quando il grado di stenosi della carotide è attorno al 70-75% è necessario eseguire l’intervento chirurgico o endovascolare di asportazione del materiale aterosclerotico e “pulizia”dell’arteria per prevenire l’evento ischemico.
Quali sono i fattori di rischio?
I fattori di rischio sono comuni a tutte le patologie aterosclerotiche: diabete, ipercolesterolemia, ipertensione arteriosa e fumo di sigaretta. Ognuno di essi, infatti, agisce in maniera differente sull’endotelio dell’arteria causando lo stimolo per lo sviluppo dell’aterosclerosi.
Si può prevenire? E come si può diagnosticare?
La prevenzione è fondamentale nel processo aterosclerotico per non incorrere nel rischio di sviluppare delle placche che a loro volta determinino delle stenosi arteriose.
E’importante mantenere uno stile di vita il più corretto possibile, tenendosi in movimento, controllando la dieta, la pressione arteriosa e non fumando.
La stenosi carotidea non fa male e per questa ragione il controllo ecocolordoppler è indicato sopra i 50-55 anni nelle persone che sono affette da patologie, o da familiarità, che possono aumentare o rendere più rapido il processo aterosclerotico, mentre solitamente, nella popolazione generale, è utile un ecocolordoppler dei tronchi sovraoartici verso i 60 anni.
Quali sono i trattamenti della stenosi carotidea?
1) Terapia Medica
Non esiste nessun farmaco che “ripulisca” le arterie.
I farmaci ANTIAGGREGANTI sono farmaci molto importanti, in quanto, rendendo più fluido il sangue, riducono la possibilità di formazione di trombi ed emboli e agiscono come anti infiammatori sulla parete del vaso. E’ molto importante continuare ad assumerli anche nei giorni vicino all’intervento, in quanto proteggono il vaso appena operato da possibili complicanze (trombosi postoperatoria); inoltre, qualora le siano stati prescritti per patologie cardiache, contribuiscono a prevenire i danni delle coronarie causati dallo stress operatorio.
I farmaci IPOCOLESTEROLEMIZZANTI sono utili non solo per prevenire l’aterosclerosi, ma anche per rendere le placche meno friabili.
La chirurgia carotidea in urgenza o in emergenza trova il suo razionale solo in pazienti che possano essere definiti instabili e ad alto rischio sia da un punto di vista anatomo patologico di qualità della placca, sia sotto il profilo clinico.
2) Trattamento chirurgico tradizionale
Nell’ambito della malattia cerebrovascolare, la terapia chirurgica trova applicazione principalmente nella prevenzione dell’ictus mediante il trattamento della stenosi carotidea. La terapia chirurgica dell’emorragia cerebrale è invece di competenza esclusivamente neurochirurgica.
La tecnica classica dell’intervento chirurgico prevede, dopo l’isolamento dei componenti della biforcazione carotidea, il clampaggio di prova (carotide esterna e comune) protraendo per circa tre minuti il monitoraggio per rilevare eventuali intolleranze. In base a quanto osservato in questo lasso di tempo, l’operatore decide se proseguire l’intervento con o senza il posizionamento di uno shunt. Si procede quindi all’arteriotomia longitudinale della carotide interna fino ad oltre il limite superiore della placca. Si esegue l’endarterectomia (la pulizia) della carotide. Successivamente si chiude la breccia eseguita sull’arterie mediante chiusura diretta della parete o con posizionamento di un patch. Il razionale dell’uso del patch risiede nella riduzione del rischio di restenosi. Una tecnica chirurgica alternativa è costituita dall’endarterectomia per eversione, che, evitando l’arteriotomia longitudinale rende meno evidenti gli effetti di una cicatrice esuberante sulla rima di sutura. Questa tecnica è particolarmente indicata nelle carotidi allungate o per correggere eventuali kinking, ed in ogni caso necessita che la placca abbia un limite distale non troppo craniale.
In tutte le tecniche, al termine della sutura bisogna procedere al declampaggio. Al termine della procedura può essere eseguito un controllo dell’intervento tramite ecocolordoppler: infatti la precoce identificazione e riparazione di eventuali difetti in corso di endarterectomia è una procedura efficace nel ridurre l’incidenza di restenosi e di ictus nel follow-up.
Quali sono le complicanze?
L’intervento di endoarteriectomia carotidea non è particolarmente invasivo, ed il decorso postoperatorio permette una ripresa molto rapida delle normali attività a poche ore dall’intervento. Si tratta di un intervento molto delicato in quanto sono coinvolti i vasi che portano sangue al cervello.
Le principali complicanze possono essere immediate o tardive. Le immediate avvengono durante e dopo l’intervento sono rappresentate da: morte (attualmente ridotta al di sotto dello 0.5%), complicanze neurologiche, ovvero deficit motori (perdita di motilità del braccio e/o della gamba controlaterali alla carotide trattata) o sensoriali (ad esempio l’incapacità a capire, parlare, leggere, disturbi oculari sino alla cecità); tali complicanze possono essere reversibili o permanenti; lesioni dei nervi cranici: durante le fasi dell’isolamento chirurgico possono verificarsi lesioni di terminazioni nervose, con successivi disturbi (quali deviazioni della lingua o del labbro inferiore, alterazioni del tono della voce o difficoltà a parlare per paralisi della corda vocale, difficoltà a deglutire, perdita della sensibilità di parti cutanee del collo o della mandibola, paralisi del nervo della spalla che causa la sua caduta), solitamente reversibili nell’arco di alcuni mesi; sanguinamento in postoperatorio, eventualmente richiedente intervento per compressione delle strutture vicine (trachea, nervi cranici..); occlusione acuta del vaso operato: tale evento può non dare sintomi oppure causare complicanze neurologiche, spesso permanenti.
A distanza di tempo, è possibile: la restenosi o la dilatazione (pseudoaneurismi) della carotide con necessità di eventuale intervento; infezioni proteiche: tale evento si può manifestare a distanza di anni e può essere legato ad infezioni anche banali contratte dopo l’intervento (respiratorie, dentali, urinarie).
3) Trattamento endovascolare
Come per l’aorta, il trattamento endovascolare non prevede la rimozione della placca aterosclerotica, ma la riapertura del lume del vaso attraverso la spinta verso la parete della placca aterosclerotica stessa e quindi il rischio di restenosi ed embolizzazione durante la procedura è più alto che nel trattamento chirurgico aperto.
I criteri per il trattamento endovascolare sono:
Esistono delle controindicazioni specifiche alla terapia endovascolare tra le quali le principali sono la documentata allergia al mezzo di contrasto, l’insufficienza renale, l’impossibilità da parte del paziente ad assumere una terapia antiaggregante.
L’accesso vascolare più comunemente usato è quello femorale. Giunti all’estremità ascendente dell’arco aortico, la punta viene diretta cranialmente e il catetere viene lentamente arretrato in modo da posizionare la punta nell’arteria anonima o nella carotide comune di sinistra.
Un importante limite del trattamento endovascolare è costituto dal pericolo di embolizzazione distale durante la procedura. Dilatazioni, impianto di stent, passaggio di cateteri, di introduttori e di fili guida nei vasi possono staccare piccoli residui dalla parete arteriosa, con un elevato rischio di occlusione di un vaso del circolo cerebrale.
La maggior parte degli operatori preferisce riservare la predilatazione ai soli casi di stenosi grave, dal momento che, secondo alcuni autori, può favorire l’embolizzazione di frammenti della placca. Lo stenting primario senza predilatazione favorirebbe, al contrario, la fissazione della placca contro la parete arteriosa. Durante questa procedura è fondamentale monitorare il paziente con attenzione per rilevare precocemente l’insorgenza di un eventuale deficit neurologico.
Dopo il posizionamento dello stent si procede alla dilatazione della stenosi con pallone breve. Tale dilatazione dovrebbe essere eseguita a pressioni basse per evitare la dissecazione del vaso, e il diametro del pallone non dovrebbe superare quello della carotide subito distalmente allo stent. In alcuni casi si è osservata una ulteriore espansione dello stent nel periodo che segue la post-dilatazione. Si esegue un’angiografia di controllo che non può prescindere dal controllo del circolo cerebrale eventualmente confrontabile con le immagini acquisite prima della procedura.
La procedura di stenting carotideo: da destra la stenosi carotidea, il posizionamento dello stent e il risultato finale
Quali sono le complicanze?
Le principali e più gravi complicanze del trattamento endovascolare derivano dall’embolia, che può originare da manovre intraprocedurali o dal distacco di frammenti anche dopo il posizionamento dello stent. Per tale ragione si prescrive al paziente una doppia antiaggregazione da assumere per 3 mesi dopo la procedura. Lo spasmo della carotide interna è una reazione dovuta a manipolazione dell’intima con fili guida e altri dispositivi, in particolar modo i filtri di protezione cerebrale. Normalmente si tratta di una manifestazione a risoluzione spontanea dopo qualche minuto dalla cessazione dello stimolo. L’occlusione asintomatica o lo spasmo della carotide esterna non richiedono generalmente alcun tipo di trattamento.
Altra complicanza del trattamento endovascolare è la comparsa di bradicardia, ipotensione e in rarissimi casi asistolia associate alla dilatazione della biforcazione carotidea.
La dissecazione carotidea è spesso associata al trattamento di carotidi tortuose con lesioni fortemente calcifiche. Può essere utile in alcuni casi il posizionamento di un secondo stent per la chiusura dell’ostio del falso lume.
Possono infine verificarsi ematomi o anche emorragie a livello della puntura d’accesso.